È solo una storia
Quando giocai Agony pensai di poter rivivere in qualche modo l’esperienza di Dante all’inferno, o di Orfeo, o di scorgere il panorama lovecraftiano dell’inconcepibile. E, invece, ho trovato texture ed enigmi. Ho deciso quindi di scrivere una piccola storia/descrizione di quello che vorrei da un gioco come Agony. Perché, in fondo, nelle cose cerchiamo sempre un riflesso di noi stessi.
Questo format è solo un esperimento. Per cui, prendetelo alla leggera.
La porta infernale si dischiuse, il fetore ferroso di sangue rappreso e antiche rocce dimenticate mi investì. Gli occhi lacrimarono, ma l’aria era così secca che non una goccia scivolò dalle mie palpebre. Compii il primo passo attraverso il varco. Dovetti far forza per staccare il piede nudo da terra, decisi così di guardare in basso ad osservare quale forza elastica mi teneva immobile come alla vista di Medusa. Non nego di aver provato profondo sconcerto, osservando ciò che celava le mie gambe: ero sommerso fino alle caviglie da una sostanza violacea. Questa, uniforme eppure spugnosa alla vista, era densa al tatto e sembrava composta da infiniti, piccolissimi frammenti solidi. Di tanto in tanto, delle protuberanze si formavano sotto quel pavimento di carne. Qualcosa viveva, si nutriva, forse cacciava in quelle abominevoli profondità. Contro ogni ragione, immersi la mano con decisione dentro quella vomitevole palude. Scavando a fondo, cercai di afferrare qualcosa, qualsiasi cosa potesse darmi un indizio riguardo la natura di quel tappeto mobile. Ad ogni cattura della mia mano, la sostanza si disfaceva; scivolava tra le mie dita come la sabbia resa fine dalle violente aggressioni del mare. Intento nella mia pesca cieca, non mi resi conto di aver smosso troppo quelle acque morte. Decine di oggetti sbucarono come reliquie marine, prima singolarmente, poi a mucchi. Non riuscivo a mettere a fuoco, quell’aria densa mi ottenebrava la vista. Mi girai, cercando conforto da quell’arsura e, aperti nuovamente gli occhi, ne vidi un altro paio galleggiare dinnanzi ai miei. Erano lattiginosi, densi, eppure così attenti nello scrutarmi. Ne rimasi quasi incantato, cercando in ogni modo di leggere la vita che, una volta, gli apparteneva. Di rimando, una delle due pupille si strinse, mi mise a fuoco. Scosso da quella improvvisa vitalità, riuscii a cavare il piede fuori dalla presa venefica e, strisciando, arrivai alle scale che si ergevano davanti a me. Mi soffermai sotto l’enorme porticato. Sembrava un androne, ma il telaio che lo componeva si deformava alla vista, pulsava anche lui, mosso da qualche etereo soffio di vita. Mi riposai, ignorando l’assurdità di quel luogo. Chiusi gli occhi. Venni invaso dall’atmosfera carica di migliaia di lamenti provenienti da chissà quale antro, un’eco immonda fatta di urla e grida e pianti e spergiuri e maledizioni. Ogni tanto, qualche risata si stagliava su tutte quelle anime piangenti. Erano risa acute e taglienti, tanto che la mia stessa carne tremava ogni volta che un soffio di vento putrido me le trascinava alle orecchie. A pochi passi vidi una voragine, decisi di indagare. Mi girai un’ultima volta a ricercare quei vivi occhi morti, ma tutto era indistinguibile; oceano infinito in bonaccia. Mi rigirai a quel varco, mi sporsi. Non saprei raccontare cosa vidi. Ai miei occhi umani, l’imbuto senza fine che si stagliava per migliaia, forse milioni di chilometri era incomprensibile. Guardando in fondo, non riuscii a cogliere il buio che inevitabilmente toglie alla vista l’infinito. No. Una eterna luce rimbalzava su quelle pareti circolari, rendendo visibile ogni nicchia, ogni anfratto, ogni bolgia di quel luogo dimenticato da Dio. E poi li vidi. Li vidi come si vede il sole durante l’eclissi. Uno sguardo, bastò quello a rendermi momentaneamente folle. Ogni cosa ha una forma, deve averla perché possa essere colta. Quegli esseri, invece, come nella più incredibile e mutevole pareidolia sembravano immuni a qualsiasi logica. Il viso, se così posso definirlo, mutava costantemente: una ebollizione sempre viva, sempre attenta. Non avevano occhi, non avevano palpebre, né naso. Nessuna forma da ricondurre ad un vero volto. Qualcosa di osceno si celava dietro quella carne sciolta dal peccato. Uno sguardo che penetra più dei raggi del sole tra le nuvole. Uno sguardo che tutto svela e tutto denuda. E io, colto da quell’immensità maledetta, persi i sensi.