…e talvolta anche gli schermi.

Il gioco: un concetto, un termine e un’attività che tutti conoscono, ma che si rivela inaspettatamente complicato da spiegare in poche parole. Cos’è un gioco? Quali sono le convenzioni che ci permettono di identificare un videogioco come tale?

Oggi, identifichiamo il videogioco grazie a una serie di caratteristiche tecniche e artistiche che ne delineano le componenti principali. Riconosciamo un videogioco grazie alla tecnologia che lo supporta (una console, un PC, un dispositivo mobile), alla sua componente visiva (la grafica, l’interfaccia utente) e alla possibilità data all’utente di manipolare le immagini sullo schermo. Quest’ultima facoltà, che in inglese si esprime con il termine agency, è legata a una serie di convenzioni “ludiche” proprie esclusivamente del gioco digitale e non: condizioni di vincita e perdita, accumulo di risorse, punti e oggetti, ottenimento di traguardi di crescente difficoltà organizzati in livelli. La maggior parte dei videogiochi può essere classificata all’interno di categorie – numerose, ma pur sempre limitate – in base alle meccaniche di gioco (“survival”, “sparatutto”, “arena”) e alle eventuali tematiche narrative classiche, proprie anche di film e romanzi (“horror”, “fantascienza”). Ma se è vero che la stragrande maggioranza dei videogiochi può essere inquadrata in un genere o due, che ne è della minor parte, quella che non rispetta intenzionalmente le convenzioni del medium, bensì le viola, le ribalta e le sfida?

Quello di rompere gli schemi non è certo un fenomeno nuovo nella storia dei mezzi di comunicazione di massa e di espressione artistica. Una serie di convenzioni ha definito numerose correnti artistiche: dalla ricerca di equilibrio, perfezione e prospettiva nell’arte neoclassica fino ai forti contrasti di luce, ombre e colori che dominano l’Impressionismo, ogni movimento artistico ha visto le proprie convenzioni mutare nel tempo. Ma che dire del dadaismo? La caratteristica principale di tale corrente è proprio l’intenzionale negazione di ciò che è considerato Arte, favorendo la ribellione e la sovversione degli schemi attraverso la realizzazione di opere “di facile assemblaggio” (o ready-made) con oggetti della vita quotidiana come orinatoi, sgabelli e tostapane.
La rottura dei propri schemi non è un fenomeno che riguarda soltanto il mondo dell’arte pittorica: anche al cinema sono state violate intenzionalmente delle convenzioni. Lo sguardo in macchina dell’attore in Funny Games (1997 e remake del 2007) che rompe intenzionalmente la quarta parete ha un intento provocatorio nei confronti dello spettatore, il quale viene appellato in quanto “voyeur” dell’intero macabro gioco che si sta svolgendo, probabilmente disgustato da ciò che vede ma allo stesso tempo incapace di interrompere la visione.

Se nella maggior parte dei casi si guarda alla rottura di convenzioni di altri media con curiosità, interesse, ammirazione e voglia di comprendere i significati che si celano dietro alla decisione di violare le proprie leggi, i videogiochi sembrano ancora navigare in acque incerte, attirandosi talvolta qualche pregio per la loro audacità, ma spesso provocando perplessità e dubbi sulla loro essenza: questi esperimenti sono davvero “videogiochi”?

Convenzioni tecniche: Error n. Doki Doki Literature Club!

Per un buon numero di universi narrativi videoludici – dal dettagliato open world degli RPG fantasy al minimalistico spazio concettuale di Space Invadersla tecnologia digitale non è altro che uno strumento che supporta l’esperienza di gioco, non interferendo mai con l’attività dei giocatori, la cui concentrazione non dev’essere disturbata e la cui immersione dev’essere favorita al massimo da specifiche tecniche e costanti update. In sostanza, computer, console e i dispositivi mobili non rappresentano altro che la “materialità” di un videogioco, il cui scopo è quello di supportare un’esperienza senza interferire con la stessa. Di certo, non sono molti gli amanti di crash improvvisi, bug fastidiosi che interrompono un’esperienza di gioco e glitch. Tuttavia, alcuni videogiochi hanno fatto dei difetti del loro stesso supporto tecnico un protagonista ed elemento integrante del mondo videoludico. Virtual Valerie (1990, di Mike Saenz) è un videogioco erotico in cui, se il giocatore rifiuta le avance esplicite della bella Valerie cliccando su “Huh?” oppure “No”, il computer si riavvierà. Proprio così: Valerie, non contenta del rifiuto, darà una specie di schiaffo virtuale al giocatore provocando un reboot del computer che supporta l’esperienza di gioco. Poiché è il giocatore stesso che Valerie vuole punire – non semplicemente il suo avatar virtuale all’interno del mondo di gioco – sarà la sua tecnologia digitale a essere presa di mira. Ma dagli anni ’90 si passa al 2017, con la visual novel Doki Doki: Literature Club! sviluppato dal Team Salvato.

Quali sono le convenzioni di un genere come quello delle visual novel? Solitamente, le visual novel sono racconti interattivi in cui lo storytelling è affidato alle illustrazioni e al testo presente all’interno del riquadro sottostante i disegni. I giocatori sono quindi chiamati a leggere e compiere delle scelte in base al testo che viene loro presentato sullo schermo: spesso si tratta di scelte cruciali nella svolta narrativa che i giocatori vogliono far prendere al racconto. I generi narrativi delle visual novel spaziano dal dating simulator (simulatore di appuntamenti e storie romantiche fra i personaggi) all’investigativo fino al fantasy, e le illustrazioni sono per la maggior parte in tipico stile manga giapponese. Doki Doki Literature Club! è certamente classificabile come visual novel…ma non solo. Oppure, “fino a un certo punto”. La storia inizia con il personaggio attribuito al lettore-giocatore, un ragazzo, che viene ammesso all’interno del club di lettura e poesia della sua nuova scuola. La leader del gruppo è Monika, intraprendente e decisa, mentre gli altri membri del club sono la timida Yuri, la (inizialmente) scontrosa Natsuki e la migliore amica del protagonista, Sayori. Fino a qui, tutto rispetta le più note convenzioni della visual novel giapponese: personaggi inquadrati in tipologie caratteriali ben precise tra cui scegliere, atmosfera leggera e adolescenziale di un dating simulator, musica di sottofondo allegra. Fino a quando la quarta parete del gioco non viene squarciata.

Durante il gioco, infatti, cominciano a presentarsi delle anomalie percepite inizialmente come bug e glitch. Specialmente dopo un traumatico evento che rompe gli schemi narrativi e stilistici di un dating simulator, le stranezze si susseguono senza sosta: il font di uno dei testi cambia improvvisamente, il volto delle ragazze si deforma e si scompone in pixel, il gioco torna al menù principale che a sua volta si modifica in base all’andamento della storia – il tutto mentre i membri del Doki Doki Literature Club muoiono nei modi più spietati. Dietro all’interferenza con la tecnologia che dovrebbe limitarsi a supportare l’esperienza videoludica si nasconde un personaggio appartenente allo stesso universo narrativo che sta andando in pezzi: Monika. La risoluta leader del club di letteratura è infatti ossessionata dal giocatore, al punto da ricorrere alla distruzione della quarta parete tramite errori tecnici pur di eliminare le altre ragazze candidate a ricevere le attenzioni amorose del personaggio-giocatore. Interpretabile come una parodia horror dei dating simulator, Monika può essere sconfitta soltando ripagando la sua violenza con la stessa moneta, ovvero intromettendosi fra il supporto digitale e l’esperienza ludica: entrando nei file di gioco ed eliminando il file Monika.exe. Nel caso di Doki Doki Literature Club! si assiste a un’intenzionale rottura della convenzione tecnica per cui un supporto materiale dell’esperienza videoludica si limita a rendere possibile l’esecuzione di un file di gioco senza intromettersi.

Convenzioni narrative: Stanley decise di giocare a The Beginner’s Guide

La narrativa è una componente presente in moltissimi videogiochi. Lineare o ramificata dalle scelte dei giocatori, le storie più diverse sono state raccontate ricorrendo alle dinamiche e alle meccaniche proprie del videogioco e dei suoi generi. Talvolta, le storie interattive presentano un narratore intradiegetico, solitamente il personaggio principale o un personaggio secondario, che racconta delle proprie avventure passate mentre il giocatore le vive controllando un avatar virtuale. Più raro è invece un narratore extradiegetico che, in terza persona, “narra” le mosse del giocatore. La terza persona sembra infatti una tecnica più adatta alla narrativa scritta, poiché un lettore non è in grado di avere alcuna influenza sull’azione descritta né di vedere ciò che accade. Perché mai una voce fuoricampo dovrebbe descrivere ogni mossa del giocatore, o raccontarne le gesta al passato, all’interno di uno spazio virtuale? Questo è però il caso di The Stanley Parable. Il videogioco del 2007 sviluppato da Galactic Cafe (oggi CROWS CROWS CROWS) inizia con un comune impiegato, Stanley, che un bel giorno – come ci viene raccontato – si trova completamente solo all’interno dell’ufficio in cui lavora. Stanley (controllato in prima persona dal giocatore) inizia così a cercare la risposta a questa domanda. Le azioni del giocatore sono guidate dalla voce narrante, la quale continua a illustrare le mosse che Stanley compie, o meglio ha compiuto, usando il passato remoto come con un racconto i cui eventi hanno già avuto luogo. La prima evidente stonatura fra l’uso di una terza persona letteraria e l’agency del giocatore nello spazio virtuale si nota quando Stanley giunge davanti a due porte. Secondo il narratore, he entered the door on his left, ma una simile affermazione si scontra con la possibilità di scelta offerta dal mondo virtuale dei videogiochi: il giocatore può a tutti gli effetti entrare nel corridoio di destra. 

Se le parole del narratore vengono costantemente ignorate, andnando contro l’andamento previsto dalla sua storia, questi romperà anch’esso la parete invisibile che sembrava estraniarlo dagli eventi, rivolgendosi direttamente all’utente giocante in seconda persona con insulti, discorsi persuasivi e commenti sarcastici, e non più al personaggio di Stanley in terza persona. Tale narratore, ormai ben conscio delle posssibilità offerte dal medium videoludico, ricorre alla manipolazione del design delle stanze e degli altri ambienti pur di forzare il giocatore nella direzione da lui scelta, tentando di tutto pur di riportare Stanley sull’unica linea narrativa da lui prevista (facendola addirittura apparire in forma di linea gialla disegnata sul pavimento da far seguire al giocatore!). The Stanley Parable è forse il videogioco sovversivo che più si è attirato l’apprezzamento del pubblico e le lodi della critica, rendendo certamente complicata un’eventuale classificazione, ma portando alla luce la capacità dei videogiochi di riflettere sulla loro stessa natura e “giocherellare” con essa, non svalutandone le potenzialità, bensì facendone nuovi e ingegnosi usi.

Anche se, generalmente, la tecnologia di un medium (non necessariamente digitale: tecnologie sono anche un libro cartaceo che supporta la narrazione di una storia; una pellicola cinematografica che supporta l’incisione di immagini in movimento) ha il compito di nascondersi il più possibile ed estraniarsi dal contenuto che supporta, esistono numerosi casi di meta-prodotti, ovvero prodotti che – come The Stanley Parable – riflettono esplicitamente sulla loro natura di film, di videogioco, di romanzo. Prendiamo il racconto del 1979 Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino: l’autore del romanzo, che in questo caso funge anche da narratore, si rivolge in seconda persona a chi legge il suo libro chiamandolo “lettore” e guidandolo nella lettura di capitoli e paragrafi incompiuti, in un’esperienza narrativa che riflette sul piacere di leggere romanzi, saltellando da un incipit letterario all’altro. Non è diverso ciò che accade in The Beginner’s Guide, sviluppato da Davey Wreden (co-creatore di The Stanley Parable) e pubblicato nel 2015. La voce maschile narrante guida il giocatore attraverso una serie di prototipi di videogiochi lasciati incompleti, spaziando tra i più svariati generi videoludici e riflettendo sul loro signficato e sul momento della vita in cui sono stati realizzati…i giocatori non hanno altra scelta se non quella di seguire il narratore mentre esplorano gli scheletri, le bozze lasciate a metà e le idee confuse di un game designer, passando per il dietro le quinte di ciò che solitamente fruiscono in versione completa e compatta. Le interazioni sono possibili, ma non per beneficiare di un’esperienza di gioco vera e propria, quanto per “curiosare” nella disordinata mente creativa di un creatore di videogiochi, fra placeholder e ambienti 3D da completare. Come per il romanzo di Calvino, è qui il narratore che si rivolge ai fruitori dell’esperienza (lettori e giocatori) in quanto tali, e li guida attraverso pezzi e componenti che formano il medium stesso (il libro e il videogioco) creando una nuova, creativa esperienza di lettura e di gioco.

Convenzioni ludiche: The Path, sul sentiero della discordia

Siamo giunti all’esempio forse più emblematico della polemica relativa all’attribuzione del nome di “videogioco” a un prodotto, un po’ come un’opera d’arte moderna è soggetta alle critiche di chi non la ritiene arte in quanto poco elaborata, facilmente realizzabile “da tutti” e priva di significato. The Path è un videogioco – o come i lettori preferiscono chiamarlo – pubblicato nel 2009 e sviluppato da Tale of Tales, un duo di artisti (una scultrice e un graphic designer) belga. In un’atmosfera cupa, buia e malinconica, vediamo protagoniste sei sorelle di età diverse i cui nomi rapppresentano una diversa sfumatura di rosso, da Ruby a Scarlett. La premessa narrativa (recarsi dalla nonna passando per un sentiero nella foresta) è solo uno dei tanti riferimenti e ispirazioni evidenti alla storia di Cappuccetto Rosso. Ci viene data la possibilità di scegliere una sorella alla volta nel menù principale. Una volta compiuta la nostra scelta, c’è una sola istruzione che il gioco ci dà all’inizio del sentiero: Vai dalla nonna e resta sul sentiero. Normalmente, questa verrebbe interpretata come una normale frase-guida dell’interfaccia del prodotto, che avvia l’esperienza del giocatore. Tuttavia, nel caso in cui si segua l’istruzione alla lettera, si giungerà a casa della nonna sani e salvi, ma si otterrà una schermata finale che dichiara lo stato del gioco: perso.

La motivazione per cui il gioco viene dichiarato perso è la seguente: il Lupo non è stato incontrato. Diventa quindi chiaro che l’unica indicazione dataci all’inizio dev’essere deliberatamente ignorata – deviare del sentiero, addentrandosi nel bosco, è l’unica scelta che può portarci alla vittoria. All’interno dell’oscura foresta, ci si accorge della mancanza di indicazioni e della presenza di riferimenti poco chiari: non viene fornita alcuna mappa né oggetto di supporto, come solitamente un game o level designer provvede a inserire, avendo a cuore l’orientamento del giocatore in uno spazio virtuale. L’intenzione, in questo prodotto, è quella di far smarrire il giocatore, piuttosto che di farlo orientare. Un’altra convenzione ludica a cui i giocatori sono abituati è quella della raccolta di oggetti dalle molteplici funzioni, dal baratto con altri personaggi, al profitto del personaggio in termini di salute (kit di pronto soccorso, cibo) o nuovi accessori di ogni tipo che potenzino e migliorino le condizioni del personaggio. Una cosa è certa: tali oggetti hanno sempre uno scopo – in The Path, non ce l’hanno. La raccolta di fiori luccicanti sparsi per la foresta non ha alcuno scopo se non quello di simulare l’unico fine che può avere una bambina nel raccogliere fiori: la loro pura e semplice collezione. All’interno della foresta, le ragazze incontreranno ciascuna un Lupo diverso: per la piccola Robin, giovanissima e ancora incapace di distinguere il bene dal male, si tratterà di un animale selvaggio; per l’adolescente Ruby, si tratterà di un ragazzo che fuma una sigaretta, “pericolo” della giovane età di lasciarsi trascinare in esperimenti non perché lo si desideri ma per seguire un gruppo o una tendenza; la più grande, la diciannovenne Carmen, incontrerà invece una donna più anziana che siede al pianoforte in un antico teatro, riflesso della sua predisposizone all’arte e alle sue paure sul suo futuro. Il Lupo rappresenta quindi uno stadio della vita che le ragazze, a seconda della loro età, devono necessariamente affrontare per andare incontro alla crescita e al cambiamento. Per finire, anche una comune condizione di vincita viene completamente ribaltata: se la morte, o anche solo il danno, subito dal personaggio giocabile in un videogioco porta solitamente a uno stato di perdita o game over, l’unico modo per ottenere la vittoria in The Path è proprio quello di condurre ogni ragazza nelle braccia del pericolo, anziché tentare di evitarlo.

Raccolta di oggetti senza alcuna finalità, mancanza di indicazioni e senso di smarrimento, istruzioni fuorvianti, danno del personaggio per ottenere la vittoria: si è discusso non poco sul significato (o sulla mancanza dello stesso!) di The Path, che a detta di alcuni non sarebbe da considerare un videogioco proprio per la violazione di norme comunemente riconosciute come proprie del medium. Torniamo quindi al punto di partenza: cos’è un gioco – e nello specifico, cos’è un videogioco? La semplice possibilità di manipolare le immagini sullo schermo, la combinazione vincente di dispositivi digitali, arte e interattività, o un elaborato sistema di meccaniche rispondenti a precise convenzioni, che se violate rischiano di far diventare un prodotto altro dal videogioco?

Forse non si necessita dispearatamente di risposte chiare e univoche a tutte queste domande. Forse, a volte ci basta accettare la bellezza, la stranezza e anche la scarsa riuscita di qualcosa che non necessariamente dev’essere etichettato rigidamente. Allo stesso tempo, è giusto continuare a interrogarsi su cosa definisca un prodotto e lo differenzi da un altro: ecco perché, anche se talvolta non apprezzati (de gustibus!) va riconosciuto a questi e altri titoli il merito di aver lasciato i gicoatori con più domande che risposte alla fine dell’esperienza, stimolandone il pensiero critico e la curiosità. I videogiochi che rompono le loro stesse convenzioni non sono altro che gli ultimi arrivati nel mondo dell’espressione artistica che ha visto le proprie caratteristiche e i propri canoni ribaltarsi, morire e rinascere dalle loro ceneri nel corso degli anni e dei secoli.