La violenza nei videogiochi: da quella necessaria a quella gratuita
In ambito videoludico, la violenza, sia in modo “edulcorato” che in modo “pesante”, si è sempre configurata come un elemento frequente. Tuttavia, contrariamente a quanto i mass media, da sempre scagliatisi contro i videogiochi, possano pensare, la violenza, in un’opera di intrattenimento videoludico, non è sempre gratuita, né tantomeno imposta dalla quasi totalità dei titoli. Tutti i giochi che ci forniscono la possibilità di usare delle armi, di conseguenza ci permettono di adoperare della violenza. Nonostante ciò, come detto, quasi nessun videogioco in sé, tranne nei casi in cui è strettamente necessario (ai fini della narrazione o del gameplay), obbliga il giocatore a malmenare, o uccidere, delle entità animate al suo interno. In altri casi, la violenza è gratuita, spudorata, e senza freni, dettata dal volere degli sviluppatori, o dalle azioni dell’utente.
La violenza gratuita nei videogiochi
Nel mondo videoludico, molti titoli sono e sono stati al centro dell’attenzione per via della loro violenza fuori controllo, e quasi del tutto non necessaria. A questa categoria di giochi appartengono molti prodotti del passato, parlando soprattutto degli anni ’80 e ’90; nello specifico, in caso di violenza gratuita, parliamo di titoli come Carmageddon (in cui il tempo per arrivare al traguardo poteva essere aumentato semplicemente demolendo le vetture degli altri concorrenti, o uccidendo dei comuni passanti), Hotline Miami (al cui interno, impersonando un sicario, si fanno scorrere fiotti di sangue dal corpo dei nemici), Manhunt (in cui siamo infiltrati nel mondo degli snuff movie, tra scene di morte e sofferenza), e i classici Doom e Mortal Kombat, da sempre noti per le loro onnipresenti cascate ematiche. Erroneamente collocati nella “categoria” di giochi caratterizzati dalla presenza di violenza gratuita sono i vari titoli della celebre saga di Grand Theft Auto, targata Rockstar Games, già autrice di Manhunt. Certo, è innegabile che, tralasciando le missioni appartenenti alla campagna, alcune scene provenienti dai capitoli di GTA siano abbastanza cruente, e non necessariamente obbligatorie nell’essere messe a disposizione delle mani del giocatore, tra cui (spoiler alert) la sequenza di tortura “interattiva” a Mr. K, giocabile con lo psicopatico Trevor in Grand Theft Auto V. Nella storia del videogioco rimarrà indelebile, inoltre, No Russian, missione di Call Of Duty: Modern Warfare 2 (spoiler alert), in cui non dovremo far altro che crivellare di proiettili dei poveri civili in aeroporto, su ordine di Makarov.
Quando la violenza è necessaria nei videogiochi
In altre occasioni, l’uso della violenza nel gameplay di un videogioco è obbligato, per sottostare alle esigenze narrative del titolo (anche in questo caso, spoiler alert). E’ ovvio che la violenza risulti doverosa in alcune scene: per esempio, è naturale che, in Red Dead Redemption II, prequel narrativo del pluripremiato titolo del 2010 firmato Rockstar Games, l’agente Milton riceva un bel buco in testa da parte di Abigail, che riesce a salvare Arthur sul filo del rasoio, proprio mentre il nostro protagonista stava per venire ucciso dal Pinkerton. Il titolo, tra l’altro, è realistico ai limiti di un videogioco: colpire agli arti o alla testa un nemico con un fucile a canna liscia causerà l’esplosione delle stesse parti del corpo, e potremo assistere allo scuoiamento di un animale per intero, osservando il sangue e le carni della bestia. Oltre ai controversi prodotti di Rockstar, un titolo molto contestato, e inoltre (come Red Dead Redemption II) sulla lista dei più attesi di fine generazione, è l’esclusiva PlayStation 4 The Last of Us: Parte II, che, in verità, ha fatto discutere più per la sua componente LGBT, che per la violenza senza censure all’interno del suo gameplay. Più o meno all’inizio della sua avventura, Ellie dovrà far fronte ad un colpo durissimo, la morte di Joel, l’uomo che l’ha accudita come una seconda figlia durante l’epidemia di Cordyceps. Joel verrà ucciso da Abby, una ragazza con un conto in sospeso con lui, e l’intero secondo capitolo della saga di Naughty Dog si svilupperà intorno all’odio profondo di Ellie nei suoi confronti. E’ facilmente comprensibile che il percorso della nostra protagonista sarà denso di pericoli, e di violenza al seguito. Naughty Dog ha volutamente accentuato la ferocia di alcune scene topiche del titolo, attenendosi alla canonica vendetta di Ellie: vivremo, insieme alla giovane, una storia colma di emozioni negative, ponendo un particolare accento sulla brutalità delle azioni giocate, e delle sequenze animate.
The Last of Us: Parte II: crudeltà e riflessione interiore
Come detto, in The Last of Us: Parte II, Ellie dovrà affrontare una situazione a dir poco complicata dal punto di vista psicologico: la ragazza deve sopportare il peso della morte di Joel, e proteggere i suoi compagni, che non si sono fatti alcun problema ad accompagnarla nel suo viaggio di vendetta. Dina, nello specifico, la ragazza con cui intrattiene, peraltro, una relazione, le è molto cara, e rappresenta senza dubbio una luce nel tunnel di disperazione e rancore nel quale Ellie si chiude dopo il decesso del suo “padre” adottivo. L’obiettivo della nostra protagonista è rintracciare e uccidere tutti i carnefici di Joel, morto per loro mano dinanzi agli occhi impotenti della giovane, che non può far altro che guardare l’uomo morire, immagine che mai scomparirà dai suoi occhi e dalla sua mente. L’evoluzione di Ellie nei due capitoli, in termini introspettivi, è impressionante: considera Joel la persona più importante della sua vita, si infuria con lui quando scopre che l’uomo le ha impedito (volontariamente) di offrire la propria vita per creare una cura al Cordyceps (per giunta mentendole), ma poi ritrova il suo rapporto con lo stesso nel momento in cui assiste al suo decesso. Nella caccia agli uccisori di Joel, Ellie non si fa scrupoli, e in preda alla rabbia elimina qualsiasi individuo si ponga sulla sua strada, con una violenza cruda e senza rimorsi. Il titolo si articola in fasi di gameplay particolarmente cruente, anche grazie alle formidabili animazioni offerte dal gioco nei movimenti della nostra protagonista. Il prodotto di Naughty Dog, tuttavia, ci fa cadere nel rimorso per ogni nemico umano ucciso: ogniqualvolta elimineremo un uomo o una donna di una fazione avversa, i suoi compagni urleranno il nome della vittima, presi dalla disperazione per la morte di un proprio amico (oltre che alleato). Il titolo ci fornisce la possibilità di impersonare Abby, il principale obiettivo di Ellie, nei panni della quale conosciamo molte persone che, basandoci, in base alla memoria, sul loro nome, riconosceremo come vittime della protagonista, che noi stessi affianchiamo (e non solo controlliamo) nel mondo di gioco. Ovviamente, la sua furia impedisce categoricamente ad Ellie di provare qualsivoglia forma di rimorso verso un nemico ucciso, in quanto ella considera essi dei semplici intralci sul suo percorso, di cui liberarsi senza troppi problemi, alla caccia dei suoi obiettivi maggiori. La trama, dunque, si dirama in una spirale di tristezza, depressione e disperazione, intrecciando in sé elementi di cruda brutalità, raffigurata senza dubbio dai fiumi di sangue che faremo sgorgare dai corpi dei nostri nemici. In conclusione, The Last of Us: Parte II è un titolo che, forse più di ogni altro, per esigenze narrative ha l’obbligo di porre al centro del suo gameplay la violenza e la furia.
Condizione psicologica e violenza nel mondo videoludico
Spesso, alle esigenze narrative si unisce la condizione psicologica di un personaggio. Proprio nel caso di The Last of Us: Parte II, Ellie affronta un conflitto interiore, tra la disperazione, il bisogno di proteggere i suoi compagni e la vendetta pura. Solitamente, la motivazione che spingono molti personaggi ad uccidere, pur di raggiungere il loro scopo, è proprio la voglia di vendetta nei confronti di chi ha arrecato danno a lui o ai suoi cari: altro esempio illustre di questo genere di movente risiede nel personaggio di Max Payne, nell’omonima serie di videogiochi, che vuole a tutti i costi scoprire chi si celi dietro la produzione di una potente droga, sotto l’effetto della quale dei criminali hanno ucciso sua moglie e sua figlia. In altri casi, la scopo delle azioni violente del nostro protagonista può essere diverso, e varia dall’eliminazione di un individuo che ostacola il processo di raggiungimento del nostro obiettivo, al rintracciamento e all’uccisione di un nemico che ci ha privati di un bene a noi caro. In particolari occasioni, la violenza operata da un personaggio specifico è giustificabile anche con la sua follia, il suo essere sociopatico o psicopatico; è la descrizione perfetta della psiche di Trevor in Grand Theft Auto V, in cui, dall’inizio alla fine della campagna principale (passando per le missioni secondarie Sconosciuti e Folli e per le missioni online a lui dedicate), impareremo a conoscere il perché della violenza senza freni del nostro trafficante di anfetamine. Possiamo giustificare la maggior parte delle azioni sanguinolente di Trevor, in aggiunta alla sua topica follia sociopatica, attraverso il suo amore fraterno verso Michael, un altro dei tre protagonisti. I due amici, nonchè ex colleghi di rapina, si ritrovano assieme a Los Santos dopo 9 anni di latitanza (per Trevor) e di programma di protezione dei testimoni (per Michael). Michael, grazie ad un accordo con la FIB (controparte dell’FBI, nella realtà), riesce a mettere su una nuova, lussuosa vita, con sua moglie e i suoi figli, in un ricco quartiere di Vinewood. Trevor, costretto a fuggire dopo la rapina alla banca di 9 anni prima, si dà alla latitanza, trasferendosi nelle sabbie di Sandy Shores, dove intraprende delle guerriglie contro altri spacciatori di droga. I due, assieme al giovane gangster di strada Franklin, dovranno mettere a segno una serie di audaci colpi, in una trama intrecciata tra verità nascoste e tradimenti, condita dal violento comportamento di Trevor.
Con i videogiochi puoi esprimere quello che vuoi, esattamente come con il cinema. Ci sono film che hanno solo bombe ed esplosioni, e ci sono film che hanno grandi storie e che ti spingono a riflettere su te stesso e sulla vita. Dipende da quello che i creatori vogliono esprimere e sperimentare, da ciò che vogliono dare alla gente.
(Hideo Kojima)
Nonostante i videogiochi siano sovente demonizzati dai mass media a causa della violenza presente in alcuni di essi, questi celano al loro interno una motivazione chiara, per la quale questa violenza viene operata da noi, attraverso le nostre controparti virtuali. Ciò non avviene quando siamo noi, volontariamente, a “divertirci” con i personaggi di un gioco, uccidendoli senza scrupoli, e senza una reale giustificazione per ciò che facciamo. I casi in cui, per via dell’andamento narrativo di un titolo, siamo costretti a commettere azioni cruente, sono comunque chiari ed evidenti, e il tutto non accade in un modo dissimile da qualsiasi opera cinematografica. Dunque, in alcune occasioni, sarebbe anche opportuno calarsi nei panni del personaggio in questione, capire la sua condizione psicologica, e quindi la spiegazione dei suoi atti di violenza. Specialmente in The Last of Us: Parte II, il giocatore è totalmente catturato nel contesto del titolo, sia per mano della trama, che della strabiliante regia del prodotto di Naughty Dog, ma anche e soprattutto per l’immedesimazione personale nella figura di Ellie, con le sue paure, la sua voglia di vendetta, e tutte le sfaccettature delle sue emozioni.