Happy Pride Mounth!

La sigla LGBTQIA+ sta ad indicare: Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queer, Intersessuali, Asessuali, in aggiunta poi a tutte quelle identità di genere non incluse in queste principali (da qui il senso del “+“).

Negli ultimi anni, figure appartenenti a questa comunità sono diventate sempre più presenti in film, libri, cartoni, fumetti, serie tv ma anche videogiochi, destando non poche discussioni o perfino (nei casi più assurdi) lamentele.

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Molti si chiedono infatti se talvolta sia davvero necessario l’inserimento di simili personaggi all’interno di un videogame, o se questo sia solo il frutto di una strategia di marketing. Cerchiamo allora di comprendere (in occasione del Pride Mounth) l’importanza della loro presenza anche nel contesto videoludico.

I personaggi più controversi

Storicamente parlando, il primissimo personaggio videoludico appartenente alla comunità LGBTQIA+ è canonicamente rappresentato da Birdo aka Strutzi (per la versione europea) visto per la prima volta nel 1987 nel titolo Doki Doki Panic per poi essere assunto l’anno dopo tra i personaggi secondari dell’universo di Super Mario Bros.

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Strutzi appare con le fattezze di drago rosa con un grande fiocco in testa e nella descrizione del manuale ufficiale di Super Mario Bros 2 veniva in realtà chiamata Ostro, e veniva spiegato (col pronome maschile) che “pensa di essere una ragazza […] Preferisce essere chiamata Birdetta”. Proprio il nome è un dettaglio piuttosto importante in questa vicenda, poiché:

  • nella versione giapponese è sempre stata chiamata Catherine;
  • nel manuale di Super Mario Advance (remake del 2001 di Super Mario Bros 2) è definita “Draghella“;
  • nei videogiochi successivi, è stata identificata defintivamente come Birdo/Strutzi, fino ad essere introdotta come “la fidanzata di Yoshi” in Mario Tennis ed ottenere anche doppiatrici per interpretarla.

In merito, Nintendo non ha mai dato conferme ufficiali ed univoche, motivo per il quale molti non riescono a ritenere Strutzi un’icona transgender nei videogiochi ma solo un animaletto secondario la cui sessualità non dovrebbe poi essere oggetto di una così intensa discussione.

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Un secondo personaggio molto dibattuto è quello di Poison, apparsa per la prima volta nel videogioco Capcom Final Fight (1989) per poi essere integrata anche nella serie di giochi di Street Fighter. Poison è affiancata da un personaggio-clone noto come Roxy (come semplice variante estetica).

Proprio come nel caso di Birdetta, Capcom non ha mai espresso un parere univoco sul personaggio: talvolta viene definita donna transgender certo (basti pensare alla descrizione presente in Capcom Classics Collection che confermerebbe la sua transessualità), ma alcuni ritengono che questa scelta sia stata fatta solo ed escusivamente per evitare eventuali lamentele dettate dal fatto che, in un videogioco picchiaduro, fosse effettivamente possibile picchiare una donna.

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Alcuni membri della comunità LGBTQIA+ hanno infatti mal visto la genesi del personaggio, fondata su una fortissima transfobia piuttosto (se così fosse stato), che non vedrebbe nel personaggio una “vera” donna. Altri invece condannano non tanto il personaggio in sé quanto i suoi outfit, troppo tendenti al bondage e succinti, espressione di un pregiudizio che interpretrebbe la transizione come una perversione sessuale legata perfino alla prostituzione.

In realtà, stando alla testimonianza di Akira Yasuda, creatore originale di Poison: “La sua concezione nacque come contrasto per i numerosi personaggi energumeni cercando di diversificare l’insieme dei nemici di Final Fight in apparenza ed attitudine”.

Inoltre, le lamentele sulla possibilità di picchiare un personaggio femminile furono effettivamente rivolte a Capcom: un tester americano evidenziò infatti proprio questa criticità nel gameplay dell’edizione di Street Fighter per il Super Nintendo a tal punto da costringere la casa a sostituire Poison e Roxy nel titolo con due personaggi maschili, Billy e Sid.

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Probabilmente dunque, l’idea originaria di Poison doveva avere un’accezione piuttosto inclusiva, ma col tempo, nel mondo videoludico, si è sentita sepre più la necessità di creare personaggi che potessero rappresentare la comunità LGBTQIA+ in modo più degno e diretto, evitando cliché e pregiudizi di varia natura.

L’importanza dei ruoli

Ciò che infatti ha fatto la concreta differenza nella presenza di personaggi LGBTQIA+ all’interno dei videogiochi è l’esser passati da vederli come personaggi secondari o addirittura antagonisti (dalla sessualità ed identità di genere spesso non meglio specificati per evitare polveroni, come abbiamo  riscontrato) a veri e propri protagonisti del gioco, dalla storia ben definita (o tramite un comunicato ufficiale successivo/spin-off o proprio durante il gameplay principale).

Basti pensare ad esempio a personaggi come Ellie in The Last of Us, Tracer in Overwatch, Tyler Ronan in Tell Me Why o Madeline in Celeste. Potrà sembrare un’ovvietà per alcuni, ma offrire il ruolo principale a personaggi appartenenti a questa comunità ha una duplice, importantissima valenza.

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La prima è quella divulgativa ed educativa: vedere una protagonista femminile baciare una donna (come nel caso di Ellie e Tracer) in un videogioco deve essere interpretato come un qualcosa di normale e quotidiano, e non come un gesto meramente plateale per rendere un titolo più popolare.

La seconda è invece una conseguenza diretta della prima: la presenza di queste figure intende ambire ad una inclusività che possa fungere da incoraggiamento per quei videogiocatori che, ad esempio, temono ancora di poter fare il proprio personale coming-out. Se in un gioco tripla A figura serenamente un protagonista omosessuale, perché dovrebbe essere ancora ritenuto assurdo essere gay nel 2021?

In questo senso, è bene rompere un importante pregiudizio: i videogiochi i cui personaggi principali sono apertamente membri della comunità LGBTQIA+ non sono affatto apparsi esclusivamente dagli anni 2000 in poi. Ufficialmente, il primo videogioco con un protagonista dichiaratamente omosessuale è Caper in the Castro, un’avventura punta e clicca classe 1989.

Il titolo segue infatti le investigazioni della detective lesbica Tracker McDyke impegnata a cercare Tessy LaFemme, una drag queen misteriosamente scomparsa.

Bastano piccoli dettagli

Bisogna però ricordare che nel mondo videoludico esiste anche un ulteriore caso: parliamo infatti di videogiochi non interamente focalizzati su tematiche arcobaleno (basti pensare a Pride Run), ma titoli che strizzano l’occhio alla comunità anche “solo” per supporto e sostegno.

Un esempio lampante è riscontrabile in Marvel’s Spider-Man: durante l’esplorazione delle varie aree infatti, andando nello specifico a Manhattan nel distretto di Greenwich, è possibile trovare un palazzo dalle mura tinteggiate di arcobaleno, dove sventola anche l’iconica bandiera pride multicolore (ritrovabile anche in altre zone su altri edifici disseminati per la mappa).

Grazie alla modalità foto inoltre, il videogiocatore ha la possibilità di scattare un selfie nei panni del bimbo ragno davanti a quello scorcio. Questi scatti infatti sono stati condivisi largamente in tutto il mondo sui social, proprio per accentuare non solo l’apprezzamento per l’iniziativa ma anche l’importanza di un particolare tanto semplice quanto fondamentale.

Inserire decorazioni a tema pride in un mondo virtuale può creare infatti un ottimo incentivo per trasportare la cosa anche nel mondo reale.

In questo senso, sono degni di nota anche quei titoli che, nellla customizzazione e scelte del proprio personaggio giocante, prevedono tranquillamente identità di genere non binarie/o relazioni omosessuali: si tratta forse della soluzione più “comoda” (in un certo senso anche obbligatoria) ma non si dica che non faccia la propria parte. Parliamo di principalmente di titoli come Mass Effect o Dragon Age, con i quali la casa BioWare ha dato il proprio (importantissimo) personale contributo.

Il vero precursore è però lo storico The Sims: canonicamente, i personaggi vengono ritenuti tutti bisessuali, un dettaglio dapprima inserito come semplice errore nel codice di gioco e poi integrato nella serie. Per poter però far sposare ufficialmente due personaggi dello stesso sesso (e non limitarsi al solo “fiki fiki“) bisognerà attendere il 2009 con The Sims 3, visto che nel precedente capitolo i matrimoni omosessuali erano sì realizzabili ma sembravano più simili ad un “contentino” che potesse soddisfare la comunità LGBTQIA+ senza sconvolgere eccessivamente il pensiero comune (allora) ben poco progressista.

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Infine, in The Sims 4  si è deciso di scardinare (finalmente e) definitivamente ogni pregiudizio, contemplando ad esempio personaggi dalle fattezze in apparenza maschili ma voce femminile e non legando i vari outfit ad un singolo ed univoco genere.

Ad oggi, tantissimi videogiochi hanno abbracciato e sostenuto la comunità LGBTQIA+ nei propri titoli (con dettagli più o meno vistosi) ma viene spontaneo chiedersi: è ancora sensato continuare a parlarne?

La risposta è : fin quando ci saranno ancora discriminazioni e violenze è necessario che anche i videogiochi veicolino (con i propri mezzi) messaggi di inclusione ed eguaglianza senza ovviamente andare a sacrificare il comparto ludico e di intrattenimento.

Citando Anyan (protagonista di una iconica scena in Final Fantasy VII Remake):

Ricorda che la vera bellezza viene dal cuore, e che la bellezza non conosce genere. Non vergognarti mai di ciò che sei.